Periferia di Kuala Lumpur, tra edifici pericolanti e marciapiedi pieni di buche, cento mini-market dai prodotti arabi e un quartiere nato dalle migrazioni di massa, dalle politiche di accoglienza della Malesia nei confronti dei fratelli musulmani, cammino a testa bassa per ripararmi dal sole, sono l’unica donna per strada, sono l’unica bianca.
“Perché lo fai?” mi chiede Mukhtar, insegnante di inglese e rifugiato yemenita presso la comunità Tayr dove sono venuta ad offrire delle lezioni di Yoga. Lo guardo e sorrido perché non so cosa rispondere.
“Perché’ lo fai se non sei neanche pagata, perché usi il tuo tempo e i tuoi soldi per venire a passare del tempo in questo angolo sperduto di una città dove il caldo è infernale e tu sei una completa estranea?”
“Perché sono malata di mente” penso tra me e me.
“Perché sono talmente vuota dentro che questo da’ un senso alle mie giornata” mi suggerisce la voce sarcastica che da sempre mi accompagna.
La lezione finisce e gli uomini che sfidando pregiudizi sono venuti alla lezione di yoga si alzano stropicciandosi gli occhi dopo savasana. Ogni tratto è rilassato, ogni ruga sparita, lo sguardo è pulito e i dubbi riguardo alla mia presenza sono svaniti. Non ci sono più domande, il motivo della mia insistenza è forse ovvio.
Il secondo giorno è dedicato alle donne. Arrivo un pelo in ritardo e il primo gruppo è già sistemato sui tappetini, indossano tute e magliette, qualcuna ha una cuffia che raccoglie i capelli, molte i capelli lunghissimi raccolti in una crocchia. Ridacchiano vedendomi entrare. I fianchi sono larghi e la fatica è molta ad ogni movimento, ma piano piano il fiato si rompe e l’attenzione è completa. La lezione finisce e prima di uscire, prima di posare per la foto di gruppo, si rivestono da capo a piedi. In un attimo pantaloni Nike e canotte colorate sono coperti da palandrane nere lunghe fino ai piedi, il cappuccio annesso copre la cuffia, un ritaglio di stoffa nera la bocca e per ultimo aggiungono la velina para-occhi. Cosi posiamo, sorrido per convenienza, consapevole che mi stanno facendo un favore.
Come spesso mi succede in queste situazioni, queste donne sono probabilmente più sorprese di me. La maggior parte sono yemenite, qualcuna del Sudan, scappate dalla guerra negli ultimi due anni.
“In Malesia si sta bene”, mi dicono “E’ un paese sicuro e la gente è simpatica.” mi spiegano.
Comincia la lezione successiva ed è difficile mantenere la concentrazione. Le donne sghignazzano e si indicano tra loro, sbuffano sudando e si muovono a fatica, ma guardandole muoversi noto che sono molto più flessibili di tanti altri principianti che ho avuto il piacere di introdurre allo yoga. Più tardi mi spiegheranno che ridacchiavano prendendosi in giro perché si trovano grasse e goffe e mai si erano trovate in una stanza a muoversi e sudare insieme. È la loro prima lezione di yoga in assoluto. Ne hanno sentito parlare, sono curiose, mi chiedono se perderanno peso e di quante lezioni di yoga hanno bisogno per diventare magre come me.
Dopo neanche un quarto d’ora dall’inizio della lezione mi informano che è ora della preghiera, per cui si alzano, si rivestono, si rimettono i vestiti lunghi neri e coprenti con cui sono arrivate, girano il tappetino in direzione della Mecca e si mettono in fila a pregare, alzandosi e chinandosi al ritmo delle preghiere. Le guardo e vedo un saluto al sole, un surya namaskar compiuto da millenni cinque volte al giorno da milioni di persone in tutto il mondo. Mi viene da sorridere. Forse da noi lo yoga è di moda anche perché non abbiamo nessuna pratica fisico-spirituale che ci appartenga culturalmente e che ci permetta di prenderci cura del nostro spirito, della nostra mente e del nostro corpo nello stesso momento e in modo cosi sistematico.
La lezione riprende e loro sono sempre più attente. Sudano e sbuffano, ma sono entusiaste.
La lezione finisce e l’atmosfera cambia, diventa accogliente, un ritrovo di signore con bambini al seguito e litri di tè profumato a bollire. In un attimo divento l’ospite per eccellenza, l’attrazione a portata di mano. Ricevo infinite tazze di tè, enormi sorrisi, abbracci anche. I bambini mi guardano con gli occhi sbarrati e, indovinando le mie domande interiori, la responsabile del gruppo e insegnante di inglese mi informa che quei due piccoletti hanno in realtà 5 e 10 anni, ma ne dimostrano neanche la metà. “I nostri bambini sono minuti, non crescono tanto, rimangono piccoli fisicamente.” mi spiega. Mi offre l’ennesima tazza di tè nero super forte al cardamomo e attacca bottone. Ha i tratti arabi, gli occhi grandi, le mani curate e un grande sorriso.
“Hai bambini?” mi chiede in un inglese dall’accento perfetto.
“No. E tu?” le rispondo, immaginando che quei fianchi larghi abbiano già prodotto prole in quantità.
– Neanche io. Sono divorziata.
La guardo stupita. Lei sorride e continua.
– Ero sposata, sono rimasta incinta ma ho perso il bambino al quarto mese di gravidanza e cosi mio marito ha deciso di divorziare. Sono andata via dallo Yemen con i miei genitori l’anno scorso per via della guerra. Ho lasciato la mia casa, i miei amici, tutto.”
Continuiamo a parlare e scopriamo di avere la stessa età e di aver fatto studi simili. Lei è traduttrice Inglese-Arabo; in Malesia fa l’insegnante d’inglese presso la comunità di rifugiati, ma non ha un lavoro vero e proprio. – È difficile trovare lavoro fuori dalla nostra comunità. Anche perché essendo rifugiata in realtà non posso lavorare qui in Malesia. –
Continua a raccontarmi la sua vita, ha voglia di parlare, io la ascolto, felice di condividere.
– Non sono sposata ora, ma sono fidanzata,” aggiunge fiera. “Oggi non porto l’anello, ma sono fidanzata. Lui fa il medico in Arabia Saudita, è più grande di me, ma non troppo, solo 10 anni. Inshallah ci sposeremo quest’anno dopo Ramadan.”
– E come l’hai conosciuto? – le chiedo, pensando che forse sia un amico di famiglia conosciuto in Yemen prima dell’esilio, nella mia mente mi immagino incontri ad occhi bassi osservati da mille parenti in salotti ricoperti di tappeti a bere un te’ dopo l’altro.
– Non lo conosco. – Mi risponde con un gran sorriso. – Ho conosciuto sua figlia, che mi ha parlato di lui e si e’ occupata dei contatti con la famiglia. Pero’ ho visto la sua foto su Facebook. – mi spiega.
– Quindi chattate su Facebook? – le chiedo, ingenua.
– Certo che no! La mia cultura non mi permette di parlare con uomini, neanche di chattare. Solo dopo il fidanzamento, e anche lì, neanche troppo. Ma ho guardato bene la sua foto su Facebook e sua figlia mi ha raccontato tutto di lui, è molto simpatica.
Effettivamente, penso, lei è più fortunata di lui, che al massimo avrà visto la foto di una silhouette coperta di nero con lo sguardo coperto da una velina.
– E lui cosa sa di te? Ti vuole anche se sei divorziata?
– Si, è al corrente di tutta la storia, e mi vuole lo stesso. – aggiunge emozionata.
La guardo, incredula.
– Sei molto coraggiosa. – le dico.
– Perché?
– Io non mi sposerei mai con un uomo che non conosco, avrei molta paura.
– Ma no! So tutto della sua famiglia e conosco bene sua figlia.
– Va beh, io sarei comunque terrorizzata. Sei una persona molto fiduciosa.
Lei sorride. – Grazie. E tu? Sei sposata?
– Nella mia cultura non ci si sposa tanto, ma ho un ragazzo, da un paio d’anni.
– E’ occidentale?
– Si.
– E come vi siete conosciuti?
– In India, per strada, eravamo entrambi seduti su dei gradini a bere un chai e abbiamo cominciato a parlare.
Lei ride. – Poi dici a me che sono fiduciosa! Tu ti metti a parlare con gli sconosciuti per strada! E poi non è strano che siete entrambi europei e vi siete conosciuti in India? – E scoppia in una grassa risata. – A me sembra che sia tu che fai cose pericolose, non conosci neanche la sua famiglia, non sai se ti sposerà…ma non hai paura?
Scoppio a ridere anche io, effettivamente il suo punto di vista è pertinente!
Ci scambiamo i numeri di telefono, le dico di scrivermi per consigli sullo yoga, mi dice che mi manderà notizie della sua nuova vita in Arabia Saudita.
Ci abbracciamo e ci prepariamo ad uscire. La vestizione è rapida e in un attimo lei è completamente coperta, con tanto di velina para-occhi e copri bocca. Mi fa il segno della pace con la mano e la perdo di vista non appena si allontana con le altre, visto che, a parte le scarpe, non c’ è nessun altro dettaglio che potrebbe aiutarmi a riconoscerla.
Per piu informazioni sul progetto di Yoga con i Rifugiati in Malesia, consultare qui
Per altre storie di rifugiati consultare Margeye