Sk8boarding is not a crime
Skatare non è reato, ma sport, arte e cultura.
Sulla scia dei ragazzi di Dogtown, che l’anno della canicola californiana occuparono le piscine vuote e le trasformarono in rampe improvvisate, anche oggi ragazzi in tutto il globo si riappropriano di spazi urbani e reinterpretano luoghi-simbolo della città in cui vivono per incontrarsi, confrontarsi e skatare. Lo skate, nato come il fratellino terrestre del surf, si è sviluppato e diffuso creando una cultura, spesso considerata una controcultura, tipicamente urbana.
Gli skaters si incontrano davanti ai grandi musei, nel retro dei teatri più importanti del mondo, nelle piazze risultato di intensivi progetti di rigenerazione urbana, sugli spalti che circondano enormi monumenti e memoriali. Scovano spazi “perfettamente skatabili” e in breve tempo li convertono in luoghi di ritrovo e di scambio; gli spazi urbani diventano così punti simbolici di appartenenza cittadina più che riferimenti reali all’evento commemorato.
A chi critica l’occupazione e il deturpamento del suolo pubblico, gli skaters rispondono di sfruttare al pieno gli spazi urbani. Li vivono, li interpretano, li usano, li consumano. I luoghi di culto cittadino diventano così luoghi di ritrovo di chi la città la vive facendo stridere i cuscinetti mentre sfreccia sulla sua tavola.
Come prima tappa del nostro viaggio sul riappropriarsi degli spazi urbani siamo andati a incontrare gli skater di Barcellona, che si incontrano davanti al museo MACBA. Vi è uso personale dello spazio urbano, il che comprende adattamento, creazione e vissuto. Testo di Marge, Foto di Chico de Luigi
Tiro su col naso e mi asciugo la fronte. È almeno la decima volta che provo a grindare questo muretto, ma da quando quel tipo portoghese ci ha spalmato sopra la sciolina, il mio skate schizza via come una saponetta non appena si appoggia al bordo della scalinata. Sarà che ho le gomme troppo vecchie e lisce, dovrei cambiarle. Il tipo che vende skate sottobanco oggi non c’è, altrimenti gliele avrei chieste a lui.
Così basta. Mi siedo, mi riposo un attimo. Mi sdraio e ammiro il Macba; i raggi del sole del primo pomeriggio riflessi e amplificati dalla grande struttura bianca riempiono l’ambiente di una luce abbagliante. Le vetrate del museo diventano specchi e si vedono le impronte lasciate dalle ditate dei visitatori che, una volta entrati, preferiscono schiacciare il naso contro il vetro per guardare noi sulle gradinate. Perché siamo noi l’attrazione della piazza.
Rimango sdraiato un po’, chiudo gli occhi, faccio una pausa e ascolto il rumore delle ruote sulle scalinate del museo, la colonna sonora costante di Plaza de los Angels. Allargo le narici per farmi stordire da quell’odore dolciastro e penetrante che arriva a vampate da ogni angolo. Poi, di colpo, cala il silenzio. Apro gli occhi e la piazza è semi-deserta; solo qualche ragazzino in bicicletta oltre a due volanti della polizia appostate a lato piazza. Quattro agenti della Guardia Urbana fanno il giro, ostili e minacciosi. I pochi rimasti fanno finta di niente, le tavole sono sparite. Anche io cerco di rendermi invisibile e fortunatamente passo inosservato, nonostante sia evidente che ho appena smesso di skatare. Al ragazzo argentino vicino a me non va altrettanto bene e dopo una secca discussione, gli viene rilasciato un foglietto giallo: 370€ di multa per skate in zona proibita. Javi, di Barcellona, si mette in mezzo e gli viene sequestrata la tavola. Clima di terrore.
Arriva la polizia e tutto si ferma, si svuota; in un attimo Plaza de los Angels diventa anonima, cessa il brusio delle voci della gente e soprattutto non si sente più lo scorrere delle ruote nel piazzale, lo sbattere degli attacchi sui gradini. Tutto si ferma e si svuota, ma rimangono i segni fisici che segnano ormai la piazza, privandola dell’anima minimalista che avevano voluto che avesse e che ora non le appartiene più. Restano sui gradini i segni lasciati dagli skate e dalle decine di persone che ci si siedono tutti i giorni, qualche pallone rimbalza solitario sul piazzale. Rimane l’installazione di dimensioni gigantesche sulla facciata di fronte al museo che rappresenta uno skater riverso per terra e la sua tavola rotta dipinti su una serie di tavole da skate poste una accanto all’altra.
Uno skater sdraiato per terra con accanto la sua tavola spezzata in due. Monumento ai caduti o avvertimento al popolo della piazza? Sembra una beffa, quasi una minaccia, ma almeno è prova della nostra presenza.
È un po’ di tempo che in Plaza de los Angels cala il silenzio sempre più spesso; per un paio d’ore tutto sembra immobile, per poi ricominciare esattamente come prima.
Il distretto di Ciutat Vella ha deciso di impedire lo skate di fronte al Macba, pretesto le lamentele dei vicini per il rumore e la situazione di degrado urbano. Ha introdotto un’ordinanza civica che punisce la pratica dello skate al pari della prostituzione e all’elemosina e definito un piano urbano per trasformare la piazza in modo che non si possa più skatare. Il risultato è che viene sempre meno gente, ma continua a tornare. Infatti vanno via le volanti e in un attimo ecco che tornano gli skaters, i ragazzini, le coppiette, i vecchietti, i barboni, le macchine fotografiche. A volte ci sono più obiettivi che persone. Studenti, turisti giovani e anziani armati di macchina fotografica scattano ad ogni angolo in ogni momento. Gruppi e coppiette si fanno autoscatti con sfondo Macba e skaters. Tutti scattano, scattano, scattano. Perché siamo noi l’attrazione della piazza.
Sicuramente esistono altri posti dove andare a skatare; Barcellona è piena, ci sono skate park, rampe, ci si muove anche facilmente in skate. Ma Plaza de los Angels non è solo un posto che sembra progettato apposta per skatare; è un punto di aggregazione, di ritrovo, di unione anche. I bambini vengono qui per imparare ad andare ad andare sui pattini, i ragazzini giocano a pallone. Conoscevo una ragazza che si eccitava a sentire lo schioccare delle tavole, lo stridere dei cuscinetti, il rullìo delle ruote degli skate. Veniva qui al Macba, si sdraiava e riusciva a rimanere con gli occhi chiusi per ore. Sembrava dormisse, però la vedevi sorridere con gli occhi chiusi, ogni tanto si appoggiava sui gomiti e ci guardava fumando una sigaretta. Diceva che le vibrazioni sulle gradinate e il rumore costante delle ruote le facevano venire la pelle d’oca e la pelle attenta. Le sembrava la stessero sfiorando per poi toccarla più forte. Diceva che i colpi delle tavole che sbattevano per terra e l’attrito degli attacchi sui gradini le facevano sentire brividi lungo la schiena e venire i capezzoli duri.
Per un lungo periodo lo skate è stato l’unico interesse della mia vita. Il mio sogno era di essere sponsorizzato, diventare famoso, essere notato per i miei trick. Così mi allenavo, tutti i giorni, ovunque. È anche uno dei motivi per cui mi sono trasferito a Barcellona; è il punto di ritrovo degli skaters di tutta Europa, ma in Europa lo skate non è business come negli Stati Uniti. È molto più difficile vivere solo di skate. La mia ossessione cominciò a farmi diventare matto e decisi di ridimensionarla. In testa avevo solo lo skate, sul corpo lividi perenni. Andavo fiero delle mie cicatrici e la mente era settata in una sola direzione: volevo sfondare, uscire, volare. Ora non è più così. Sono sempre orgoglioso dei segni che porto sul corpo, ma vengo al Macba a sfogarmi, a rilassarmi, a esprimere la mia passione e non più a vivere, da frustrato, la mia ossessione. Ho definito meglio il mio concetto di libertà: il poter volare libero come un’aquila, sovrastare, guardare, non dover rendere conto a nessuno e prendersi responsabilità delle proprie azioni. Quando skato senza un altro fine che di farlo per me mi avvicino a quest’idea di libertà. Sono io che faccio saltare la tavola, sono io che mi rovino per terra 1, 10, 100 volte di fila. È la mia lotta personale contro gradini e panchine. È prendere consapevolezza delle capacità del mio corpo e della mia mente. E poi, in un certo senso gli skaters volano. Anche solo per un attimo, ma volano.
Dopo un po’ che te ne stai seduto sulle gradinate ti rendi conto che esistono vere e proprie dinamiche di controllo del territorio. Si tratta per lo più di convivenza pacifica tra gruppi che condividono lo stesso spazio, ma capita che, oltre agli sconvolgimenti causati dagli interventi istituzionali, i gruppi cozzino ed ecco apparire la rete che regge l’equilibrio della piazza. Non lo chiamerei localismo, fenomeno abituale negli ambienti frequentati da skaters, surfisti, etc. E’ più un lavoro di squadra in caso di bisogno. Un sistema di sicurezza autogestito. Un localismo mirato. Torti ai ragazzini, esplosioni di nervosismo tra skaters o tra i senzatetto, furtarelli alla gente distratta e simili episodi vengono regolati da un lavoro coordinato di protezione di squadra. La piazza è di tutti; nonostante la gente cambi sempre ci conosciamo tutti di vista e mi sento tirato in causa se regole di tacito accordo vengono violate. Non arrivo alla violenza, alle mani addosso. C’è chi lo fa, è successo, me le sono anche prese, ma non mi piace per niente. In Plaza de los Angels si tratta per lo più di interventi per ristabilire l’equilibrio, come inforcare bici o tavola per recuperare borse rubate, allontanare personaggi molesti e così via. Sguardi apparentemente distratti scrutano la scena per capire se e quando intervenire. È un localismo che mi piace e che non ho mai trovato altrove; troppo spesso il controllo del territorio sfocia in egoismi violenti, spesso quando non ce n’è assolutamente bisogno. È possibile condividere uno spazio, è possibile accettare l’uso che ne fa gente diversa.