Non è importante la gravità di un problema, quanto la percezione che la gente ha del problema. Il modo in cui si vive il problema fa la differenza e di fatto crea il problema.
Si tende ad amplificare il proprio e a sminuire l’altrui. Come si suol dire, spesso ci si preoccupa maggiormente se la tappezzeria di casa nostra ammuffisce piuttosto che se le fondamenta della casa del nostro vicino stanno crollando.
Ma quand’è che una questione diventa un problema che merita un’esame e la ricerca di una soluzione? E’ lecito ridimensionare i disagi e le lamentele o il semplice fatto che ci sia un disagio legittima il fatto di individuare un problema reale da dover risolvere?
Dopo questa riflessione, un teatrante olandese grande grosso e pelato tranne per un ricciolo ingellato che gli cade sulla fronte oggi ha concluso che ogni volta che un disagio viene percepito come un problema, questo diventa automaticamente un ostacolo, un nodo da dover assolutamente sciogliere. Nonostante la reazione normale degli altri sia di minimizzare. In caso la questione sia veramente affrontata da persone esterne alla faccenda, il tutto viene spesso e purtroppo strumentalizzato per altri fini.
Di default penso alla percezione della sicurezza in Italia, allo scarto tra i dati raccolti dall’Osservatorio sui media di Pavia e i dati reali sui reati in Italia. Giusto per chiarire, lo studio dell’Osservatorio di Pavia mette in evidenza il saldo legame tra la recente sensazione di paura denunciata dagli italiani e l’allarmismo mediatico. Un grafico in particolare illustra due curve: una rappresenta i reati gravi commessi nel paese, la quale rimane piuttosto stabile nel corso dei tre anni presi in considerazione, mentre l’altra rispecchia la rappresentazione mediatica dello stesso tipo di reati, e questa ondeggia, sale e crolla vertiginosamente a seconda del periodo politico. (Il picco maggiore viene raggiunto in periodo pre-elettorale per poi crollare sei mesi dopo l’elezione del nuovo governo.) Come si può facilmente indovinare, la percezione della sicurezza segue fedelmente quella della rappresentazione mediatica.
La mancanza di sicurezza è sicuramente un disagio diffuso tra gli italiani, ma, a parte l’atteggiamento che porta a minimizzare e a dichiarare senza timore di sbagliare che in Africa o in qualsiasi città in Nord o Sud America la situazione è incredibilmente più grave, il solo fatto che ci sia la percezione di un problema giustifica il doverlo affrontare in qualche modo. Inutile dire che anche in questo caso la questione è stata affrontata da chi non subisce il disagio e il problema della sicurezza è quindi stato strumentalizzato all’estremo per guadagnare sostegno popolare. Una questione non diventa quindi problema solo quando chi la subisce la percepisce come tale, ma anche quando la strumentalizzazione crea un effetto a catena talmente violento da far percepire il problema anche a chi non risente abbastanza di tale situazione da voler trovare una soluzione. Le soluzioni più semplici da trovare sono quelle che già esistono e che sono economicamente più accessibili. E’ così più semplice giustificare la decisione di aver scelto proprio quella soluzione, addolcendo la pillola per chi non condivide appieno la scelta allo stesso tempo dando un contentino a chi aveva espresso il disagio. Una volta istituito il problema e individuato il nemico, tutto è più semplice: si cavalca l’onda fino ad arrivare alla meta, la strumentalizzazione tocca il suo apice e il fumo acceca la gente su alternative, su altre possibili soluzioni, su altri problemi.
Così, sulla scia dell’emergenza sicurezza, si è deciso di legalizzare le ronde urbane; non armate, come si è ripetutamente sottolineato. Tuttavia, sento che quest’ultima trovata non sia che la soluzione più semplice e facilmente nascondibile dietro il pretesto di voler dare ai cittadini la possibilità di partecipare attivamente. L’anticamera della guerriglia urbana, secondo me. Uno spettro che porta a un baratro senza fondo, a una voragine agghiacciante fatta di limiti e violenze, a un aizzarsi di atteggiamenti che non può che sfociare in una guerra tra poveri, in un bagno di sangue.
Ultimamente il dibattito “Ronde” avvelena scambi orali e scritti, imperversa sui giornali, anima le discussioni nei bar, fa gongolare i leghisti, tremare i soliti bersagli e tramare cittadini apparentemente innocui.
Di fronte a una sensazione di disgusto e rifiuto, la reazione è rabbia cieca che può rivelarsi controproducente quanto l’indifferenza. La reazione è di ringhiare solitari per poi chiudersi a riccio e non voler sentirne neanche parlare.
Rimango quindi stupita quando sento altre interpretazioni del fenomeno delle ronde.
Ascolto con attenzione le analisi di due professionisti del sociale con esperienza in gestione di conflitti e che conoscono profondamente le realtà periferiche e svantaggiate del nostro paese. La mia rabbia viene sedata da accuse velate di ignoranza e di chiusura, il mio rifiuto totale nei confronti di questa “soluzione” viene tacciato di incomprensione del fenomeno, la normale reazione di tendere a minimizzare i problemi altrui. Ma, “se esiste un disagio, per quanto questo scaturisca o meno da un problema reale, è necessario affrontarlo prima che la situazione degeneri” mi viene detto. “Se la gente sente di voler partecipare attivamente per salvaguardare la propria sicurezza, prendiamola come un aspetto positivo, come la reazione attiva e propositiva a un fenomeno che disturba, la voglia di smettere di aspettare che le soluzioni cadano dall’alto.”
Faccio fatica a seguire, ma persisto nel voler capire il loro punto.
“Se la gente vuole partecipare, sfruttiamo questa voglia di mettersi in gioco. Andiamoci a parlare, vediamo di capire come si può agire insieme.”
E ancora: “Vediamo gli aspetti positivi: la gente preferisce andare per strada piuttosto che comprarsi una porta blindata e rimanere a farsi rincoglionire dalla televisione. La cosa più difficile da fare quando la gente ha paura, è quella di farla uscire. Ora che vuole uscire, abbiamo la grande opportunità di poterci parlare, di lavorare insieme per affrontare davvero la questione sicurezza cominciando un lavoro di rete.”
Voglio pensare che sia ottimismo e non idealismo, voglio pensare che la mia reazione di rifiuto non sia che un istinto e che si possa veramente tirare fuori un fiore dalla merda. Perché si tratta proprio di questo.