Più di 80 scrittori da più di 20 paesi, esponenti dei media dal Sud-est asiatico e dall’Australia e innumerevoli curiosi e interessati si sono incontrati a Ubud in occasione del sesto festival degli scrittori e dei lettori, tenutosi dal 7 all’11 ottobre 2009.
Il festival ha coinvolto tutta la cittadina di Ubud e sono stati organizzati eventi anche a Denpasar e Semyniak e la varietà del programma ha permesso di scegliere e spaziare in quanto a temi e stili espressivi. Autori di tutte le età e provenienza si sono confrontati sui temi più diversi. Dibattiti di attualità e di tematiche sociali si sono alternati o sovrapposti a scambi di opinioni su specifiche tecniche narrative o a semplici conversazioni divertenti su eventi che hanno suscitato la voglia o la necessità di scrivere, come un viaggio o una risata. Si sono svolti workshop di scrittura per adulti e per bambini e si sono tenute letture e rappresentazioni teatrali e presentazioni di libri in varie location sparse per Ubud. Ampio spazio è stato dedicato agli Educational Programs for Youth, per dare opportunità ai giovani scrittori indonesiani di conoscere le case editrici e viceversa e per promuovere la traduzione dei libri scritti in Bahasa Indonesia. Senza dimenticare le mostre fotografiche, le proiezioni di documentari e i numerosi “pasti letterari”, incontri in cui gli autori hanno incontrato i lettori attorno a una tavola imbandita. È stato persino organizzato una breve passeggiata, un “jalan-jalan” tra le risaie nei dintorni di Ubud in compagnia dello scrittore di viaggi Brian Thacker.
Il tema di quest’anno è stato “Suka-Duka”, un concetto proprio alla cultura balinese, in inglese tradotto come “Compassion and Solidarity”. Wole Soyinka premio Nobel alla letteratura e partecipante al festival di Ubud di quest’anno, ha dato la sua interpretazione del concetto di “Suka-Duka”: “Compassione e solidarietà non significano pietà né filantropia. Non sono virtù appartenenti alle classi più abbienti, ma concetti egualitari, che coinvolgono tutti. Compassione e solidarietà sono la dimostrazione della nostra umanità, significano partecipare in quanto esseri umani, prendere posizione, andare verso l’altro in modo consapevole, senza abbandonare i valori etici in cui crediamo o negare le responsabilità proprie o altrui. È la capacità di trascendere il passato, evolvere e andare avanti senza però dimenticare. Si tratta di valori universali che vanno oltre la ricerca di giustizia, di perdono o di espiazione. ”
Lo scrittore spirituale Anand Krishna, in un articolo pubblicato sul Bali Times del 9-15 ottobre 2009, descrive l’idea di “Suka-Duka” alla balinese. “A Bali, esercitiamo “Suka-Duka”, tradotto di solito come “Solidarietà”. In realtà “Suka” significa “Felicità” e “Duka” “Afflizione”. Il concetto è quindi: solidarietà in momenti di felicità e in momenti di tristezza. La nostra interpretazione della solidarietà non è solo aiutare gli afflitti, ma anche condividere la felicità di chi sta bene. Non è facile condividere la felicità di chi sta bene, è molto più facile aiutare chi sta male. Quando aiutiamo gli afflitti, alimentiamo il nostro ego; ci troviamo in una situazione migliore: noi diamo, loro ricevono. Noi siamo quelli privilegiati, loro no. Quando si tratta di condividere la felicità di chi sta bene, il nostro ego si sgonfia e ci viene da chiedere: Come ha fatto ad ottenere tutto quello che ha? Diventiamo gelosi dei successi e della felicità altrui. Suka-Duka significa abbattere l’ego e distruggerlo. Nel concetto di Suka-Duka, io e te siamo una cosa sola. Io non posso aiutarti, posso solo aiutare me stesso. Io non posso servirti, posso solo servire me stesso. Se tu hai fame, anche una parte di me ha fame. Se ti dò da mangiare non ti faccio un favore, perché non sono mosso dalla pietà, ma da un bisogno personale di saziarmi. Allo stesso modo, quando sei felice, non posso che essere felice con te, sentire la tua felicità e la tua gioia. Quando la vita ti sorride, sorride anche a me.
INTERVISTA A MARCO CALVANI
Unico italiano al festival è Marco Calvani, un giovane drammaturgo dal passato da attore, invitato sulla scia del successo della sua ultima opera teatrale “La Città Sotto” (in inglese tradotto come “The City Beneath”). Rappresentata per la prima volta a New York nel febbraio di quest’anno, “La Città Sotto” si ispira alle violenze nelle banlieues francesi e al fenomeno dei kamikaze per trattare tematiche legate allo scontro di civiltà, alle tensioni sociali e agli stereotipi legati alle migrazioni. Al festival di Ubud, “La Città Sotto” è stata rappresentata in lettura teatrale nella sua versione inglese da un gruppo di attori australiani e indonesiani.
Sorriso contagioso e perfettamente ambientato al clima balinese, Marco ci ha raccontato un pò della sua storia, del suo ruolo di drammaturgo e della sua esperienza indonesiana.
Cosa ci fai qui? Un italiano ad un festival in Indonesia dove la maggior parte degli autori provengono da Asia e Oceania…
-Sono molto onorato di essere qui in quanto drammaturgo; anche questa è una cosa interessante; non solo sono uno dei pochi europei, ma sono anche uno dei pochi drammaturghi qui. Comunque questo è un festival di letteratura internazionale e che quindi tende a voler far incontrare diversi tipi di scrittori, di scritture e di provenienze letterarie e culturali, e trovo che da parte loro l’avermi invitato sia stato molto rischioso, ma anche molto stimolante.
Come è nata “La Città Sotto”?
-Nel corso degli anni la mia scrittura si è evoluta ed è sempre più stata coinvolta in temi di denuncia sociale. Negli ultimi anni sentivo che il problema del terrorismo, delle disuguaglianze sociali, del nuovo avvento del fascismo era un problema reale che non mi trovava indifferente come essere umano, come cittadino e come drammaturgo. In generale ho cominciato ad usare la mia voce e il mio lavoro per entrare dentro certi temi e per mettere il pubblico di fronte alla realtà. Qualunque sia il mio pubblico. “La Città Sotto” nasce da un’esigenza personale, che poi diventa professionale, di cercare di capire. Capire i diretti interessati da un certo tipo di conflitto, le persone piene di pregiudizi, come potrei essere anche io.
Per certi versi “La Città Sotto” ha molti riferimenti alle tensioni sociali esistenti in Europa attualmente. Come reagisce un pubblico non-europeo a questo testo?
-Cerco sempre di rendere i miei testi il più universali possibile, sia nella scelta dei temi ma anche nel modo in cui li affronto drammaturgicamente. La cosa buffa, che però mi gratifica molto di questo testo in particolare, è che dovunque è stato letto o rappresentato, da chiunque, è stato localizzato in diversi punti. C’è chi ha pensato che fosse ambientato in Colombia, chi ha pensato che fosse una visione apocalittica dell’Italia, o dell’Europa, chi ha pensato che fosse ambientato in Israele. L’altro giorno, parlando con gli attori che hanno fatto la lettura ieri, che sono australiani, mi dicevano che anche in Australia esistono problemi simili. Quindi quel tipo di conflitto è un conflitto che, purtoppo, non è soltanto universale ma anche infinito ed eterno.
Sei italiano, scrivi in italiano, ma hai avuto più successo all’estero…
-Non ho mai pensato di lavorare all estero, le cose sono capitate da sé. Da attore ho viaggiato abbastanza, però non ho mai pensato di espatriare. La difficoltà è nata piano piano. Più la mia voce di scrittore è diventata attenta a certe tematiche e più ho trovato difficoltà a trovare una mia posizione a livello professionale nel paese. All’estero è più facile, c’è molta più curiosità che in Italia rispetto al mio lavoro. “La Città Sotto” è nata come testo teatrale, l’ho scritto in sei mesi dopo anni di appunti, di studio e di incontri ed è stato rappresentato per la prima volta a febbraio a New York in inglese. E’ stato rappresentato qui come lettura teatrale e poi verrà rappresentato in Francia in francese. Recentemente hanno richiesto i diritti in Danimarca. In Italia non c’è neanche una produzione che si prende il coraggio di rappresentarlo. Ho scritto questo testo anche perché l’ho sentito in quanto italiano e credo che in Italia bisognerebbe dire e ascoltare un certo tipo di materiale. Ma, ancora una volta, mi viene dimostrato che è un testo universale e che è meglio che io lavori all’estero!
Qual è il tuo rapporto con il pubblico?
-Il mio lavoro è personale, ma quando scrivo, scrivo per loro. Quando chiudo un testo mi chiedo sempre se parla a me come può parlare a tutti gli altri. Per me scrivere è un’esperienza quasi catartica, ma non lo deve essere solo per me, se no sarebbe ridicolo e patetico. Devo ammettere che la mia immaginazione non era mai andata oltre; non mi sarei mai aspettato che sarebbe successo qualcosa come ieri sera: io, il mio testo, ascoltato da un’italiana, tu, a Bali, e poi persone dall’Indonesia, dalla Malesia, dal Sudafrica, dall’Inghilterra, dalla Turchia, dall’Australia…
Come nascono i tuoi personaggi?
-Cerco sempre di scrivere dei personaggi e di farli veramente passare dentro di me a livello emotivo e corporale. I miei personaggi partono da dentro, da un’esigenza mia interiore. Ognuno dei personaggi, nel bene e nel male, ha una mia esperienza dentro. Quella è anche la mia salvezza quando scrivo. Altrimenti potrei non chiudere mai un testo, potrei andare avanti all’infinito. E’ quello che dà anche un aspetto più personale al lavoro e quindi anche più universale. Poi, vedendole in scena, mi permette di capire certe dinamiche che non capisco.
Qual è la differenza tra recitare e scrivere?
-Io non mi considero quasi più un attore. Non solo perché non lo faccio quasi più, ma non lo faccio quasi più perché non mi interessa. Ho cominciato a scrivere perché fare l’attore non mi bastava. Sentivo che, in quello che mi veniva proposto e che facevo, non riuscivo ad esprimermi fino in fondo. C’era sempre una parte di me che rimaneva inespressa. Forse anche perché non ero neanche un attore di talento! Stavo facendo una cosa in teatro, avevo 20 anni, ed era una cosa terribile. Il teatro era sempre pieno e io tutte le sere tornavo a casa e stavo male, era proprio fisico. Una notte ho deciso di cominciare a scrivere. Mi sono detto: “Se questo schifo va in scena, forse anche io, che probabilmente scrivo da schifo, posso provare a fare andare in scena qualcosa, però per lo meno sono sicuro che mi appartiene un po’ di più”. Ho cominciato a scrivere e non mi sono più fermato.
Al festival di Ubud hai tenuto un workshop di scrittura, come è stato insegnare?
-E’ andata bene. Era a prima volta che tenevo un workshop e io non ho mai frequentato una scuola di scrittura o di drammaturgia. Ho cominciato a fare l’attore a 15 anni e quando ho cominciato a scrivere per il teatro sapevo bene o male quali erano le regole. Ero abituato a leggere per il teatro, stavo su un palcoscenico da tanto, per cui sapevo cosa doveva esserci su un testo scritto. Quello che tenevo passasse nel workshop è di come non sia così difficile scrivere di qualcosa che immediatamente non ti appartiene, ma che poi diventa tuo facendolo passare dentro di te. Credo che un testo debba essere personale ma allo stesso tempo parlare a tanta gente.
Qual è il tuo ruolo come autore?
-Il mio mestiere, come quello di tutti gli scrittori che sono qui, il nostro diritto e anche il nostro dovere è quello di guardare, leggere la realtà e raccontarla. Senza pretendere di essere universali, ma proprio nella non-pretesa si nasconde l’universalità. Qualunque tipo d’opera d’arte nasce da una ferita personale, ferita anche come momento di gioia. Più è personale più diventa universale. Sembra una contraddizione ma non è così. Alla fine i temi sono sempre quelli. Quello che li rende umani ed universali è proprio la personalità del lavoro stesso. Credo che il nostro compito sia di vederla coi propri occhi e di raccontarla a proprio modo.
Qual è stata la tua prima impressione di Bali?
-In realtà non ho visto molto, anche se più di quello che mi aspettassi. Nella mia totale ignoranza non sapevo niente, però non mi aspettavo questi paesaggi meravigliosi, le risaie, le palme…non si può spiegare… C’è un’anima silenziosa, nascosta, che non si cattura. Quest’atmosfera mi è stata anche molto suggerita dalle persone. Nel modo in cui la gente ti sorride, nell’apertura di cuore… mi è sembrato che i balinesi fossero molto in pace con sé stessi. Mi sono anche fatto un vero amico, il mio autista! Gedur. Lo adoro! Me lo porterei via con me, non è mai uscito da Ubud e ha 50 anni. Straordinario, il mio migliore amico di Bali. Gedur!
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
– Adoro cantare ma non ho mai studiato canto. Canto sotto la doccia, in macchina…mi piacerebbe cantare davanti a un sacco di gente. Dev’essere un’espressione gigantesca, uno scambio senza paragoni, immediato.. E’ un sogno, in un cassettone, a cinquanta ante, con mille chiavi, nel buio!
Il prossimo lavoro di Marco debutta il 5 e 6 dicembre a Berlino in anteprima mondiale, in italiano. Sedici attori tra inglesi, spagnoli, tedeschi e italiani interpretano una riscrittura del mito di Penelope in Cecenia durante la guerra tra Russia e Cecenia.
Ecco alcuni tra i libri interessanti presentati al festival di Ubud. Per ora solo disponibili in inglese, ma chissà che qualche casa editrice non si prenda la briga e la voglia di farli tradurre in italiano…
-INDONESIA RISING di Nasir Tamara
Scritto dal giornalista\esperto di politica indonesiana Nasir Tamara e pubblicato da Select Publishing, il libro vuole essere un tributo all’incredibile maturazione democratica vissuta dall’Indonesia dall’inizio del periodo di “Reformasi” a oggi. Una documentazione del processo di democratizzazione in Indonesia attraverso gli sviluppi e i cambiamenti sociali, economici e politici.
–NOT A MUSE a cura di Kate Rogers e Viki Holmes
“Not a Muse” è una raccolta di poesie scritte da e per le donne di oggi. Comprende più di cento poesie scritte da autrici provenienti da più di venti paesi. Una collezione di poesie che testimoniano l’esistenza di tratti in comune tra le donne di tutto il mondo e attraverso tutte le culture.
–BODY 2 BODY
Curato dal regista e attivista malese Amir Muhammad, il libro è un’antologia di racconti su tematiche LGBT scritti in inglese da autori malesi. Mai recensito da giornali o riviste malesi, dove, essendo l’omosessualità reato, l’argomento è taboo, questa collezione sta riscuotendo successo all’estero e rappresenta un documento importante. La raccolta è nata in seguito a un concorso online. Si progetta un nuovo concorso in cui i racconti saranno scritti in malese.
-SLEEPING AROUND-A COUCHSURFING TOUR OF THE GLOBE di BrianThacker
Inglese australiano di adozione, Brian Thacker ha viaggiato in quasi 80 paesi usando i siti di scambio case “couchsurfing” e “hospitalityclub”. Un libro divertente sugli sterotipi, la curiosità, i viaggi e gli incontri casuali che possono cambiarti la vita.
Articolo pubblicato su Buongiorno Bali di Dicembre 2009