Serie di interviste condotte nel contesto del SI Festival di Savignano, in collaborazione con la No PANIC Gallery di Chico De Luigi.
Tutte le interviste sulla rivista NO Panic – nopanicmag
Quando hai sentito il bisogno di usare anche la fotografia per esprimerti?
-Si parla dell’età della pietra! Ho scoperto la fotografia per caso, dopo gli studi artistici. Ho sempre considerato quest’arte come un linguaggio espressivo; sono sempre stato attratto da immagini non convenzionali, mi interessava esprimermi, non riprodurre. Ho poi cominciato a utilizzare la fotografia in tanti modi; erano gli anni del concettualismo, gli anni ’60-’70 e mi piaceva usare la fotografia in modo sperimentale molto vicino all’arte. In seguito ho usato la fotografia anche in ambito sociologico, per i miei lavori nel sud Italia. L’ho sempre usata come mezzo di comunicazione, di interazione e anche come mezzo di insegnamento.
Come è cambiato il tuo approccio con la fotografia da quando insegni?
-L’insegnamento è sempre stato un prolungamento della mia vita da autore. Non c’è mai stato nessun distacco tra l’attività didattica e l’attività artistica, in quanto penso che l’attività artistica sia un unico con la propria vita. Anche l’insegnamento è un modus vivendi, che va di pari passo con i propri desideri, i propri problemi e le proprie abitudini. La fotografia per me è sempre stato un mezzo per creare incontri, per stabilire relazioni con gli altri; la scuola quindi come ambito privilegiato di comunicazione e di scambio di esperienze. Con l’insegnamento non è cambiato il mio desiderio di comunicare con gli altri, ma recentemente il mio rapporto con la fotografia è cambiato sul piano tecnico.
Qual è il tuo rapporto con la tecnologia?
Con l’avvento del digitale mi sono sentito molto più libero, anche di velocizzare alcune idee. Il rapporto con la tecnologia è sempre secondario rispetto al rapporto con il mondo delle idee e del proprio immaginario. Tuttavia, il digitale mi ha aiutato tantissimo a uscire dalla camera oscura e ad andare in chiaro; camera chiara significa poter scattare in ogni momento del giorno, poter vedere l’immagine, decidere se cancellare o conservare. C’è un rapporto con la realtà molto più diretto. Tutto avviene quasi in tempo reale e quindi ci si avvicina sempre di più a un concetto immediato di cattura di immagini. Secondo me è fantastico, ed è soddisfacente anche sotto l’aspetto didattico. Tutti i miei studenti hanno la loro macchina digitale e il loro portatile, ed è così che stato possibile fare la mostra di Savignano “Immagini in Tasca”.
Che cos’è la bellezza?
Per me la bellezza esiste e non esiste. La bellezza è uno stato d’animo che dipende da noi, siamo noi che, in ogni situazione, stabiliamo che cosa è bello e che cosa non lo è.
Che cos’è la passione?
La passione è qualcosa che ci portiamo dentro fin da piccoli; è uno stato emozionale che deriva da un’idea, quella di vivere in un mondo che ci vede legati gli uni agli altri. La passione non è mai singola, non è mai personale, ma è collegata agli altri; dipende dagli altri e non da me.
Qual è il tuo rapporto con il passato?
Il passato è ogni secondo del presente, che è già passato. Non ha quindi un tempo preciso e questa emozione mi fa vivere il presente in maniera più intensa. Considero il passato come un deterrente per vivere il presente in modo più forte.
Potresti parlarmi del progetto censimento-reportage che hai fatto a Savignano? Come si è svolto, quali erano le aspettative,
-Questo progetto si inserisce bene nel concetto di fotografia che diventa forma di partecipazione collettiva. Mi affascina il mezzo fotografico come mezzo per creare degli incontri, far passare dei messaggi, interagire con gli altri. Fotografia come dialogo, osservazione, scambio di idee…
Il progetto di Savignano ha coinvolto un gruppo di nuclei famigliari emblematici della vita di Savignano. La fotografia mi ha permesso di entrare nelle loro case, di riprenderli dentro uno spazio bianco, un telo per proiezioni. Le persone si sono raggruppate e si sono strette fra di loro per non uscire dallo spazio bianco. Ogni nucleo famigliare è stato fotografato con lo stesso sfondo bianco, in alcuni casi c’era solo una persona, o due, ma è capitato che ci fossero anche quindici, venti persone.
-Con che criterio sono stati scelti i nuclei famigliari?
Non sono stato io a scegliere i gruppi da fotografare, sono stati gli amici fotografi del gruppo di Savignano ad individuare i nuclei famigliari; io ho solo chiesto di fotografare famiglie molto diverse tra loro che potessero essere emblematiche della realtà attuale.
In realtà non mi sono posto particolari aspettative riguardo al tipo di famiglia che avrei fotografato e ho lasciato che ogni famiglia esprimesse sé stessa. Non sono interessato a un’analisi sociologica, mi interessa molto di più il momento in cui loro entrano nello spazio bianco e si mettono in posa e in relazione con me. Guardano l’obiettivo, si muovono in un certo modo; ogni famiglia si è mossa in modo particolare. Tutto ciò mi affascina molto perché è del tutto imprevedibile. Ogni fotografia ha in sé qualcosa di imprecisato, di improvvisato. Dietro una mia richiesta, ogni persona si è fatta fotografare con un oggetto di affezione; c’è una persona che ha preso in braccio il suo cagnolino per fare la foto, un’altra ha scelto di essere fotografato con un pallone in mano perché da ragazzo amava giocare al pallone.
-Qual’è stata la risposta delle famiglie fotografate?
È stata la vera novità del lavoro. Non avevo previsto che sarebbero stati così collaborativi, che mi avrebbero raccontato le loro storie e in maniera così amichevole, come se ci conoscessimo da tempo. In ogni situazione si è stabilito un rapporto estremamente diretto, di fiducia. È venuto fuori uno spaccato di Romagna! Al di là delle immagini, ho accumulato una serie di incontri e di vicende che non pensavo venissero fuori così rapidamente. In realtà il progetto mi interessa molto di più sul piano dei contenuti, del rapporto personale, piuttosto che delle immagini. Paradossalmente, le immagini sono il risultato finale di un percorso molto più complesso.
–Sei soddisfatto del risultato?
Dalle fotografie si può comprendere che gli scatti non sono stati affrontati in maniera veloce, ma in maniera lenta e rispettosa del loro status di persone con un’identità. Il rispetto della loro identità viene fuori chiaramente. Viene fuori anche un lato molto ironico, una specie di teatrino di scene dirette, non studiate e inusuali. Inusuali nelle espressioni, nelle posture…Ogni gruppo ha portato via circa due ore di tempo.Devo anche ringraziare tutti gli amici che hanno aiutato; uno ha portato il telo, l’altro le lampade, è stato un lavoro di gruppo molto bello che spero di continuare perché secondo me mancano ancora dei nuclei famigliari, come gli extracomunitari e le famiglie meno altolocate.
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe creare una grande scuola di fotografia. Una scuola in cui si parli anche di immagine, di vita, di esperienze all’interno delle tematiche del contemporaneo. Un luogo dove si possano trovare insieme degli argomenti da discutere, dei progetti da realizzare, il tutto dentro a una struttura permanente; i festival lasciano sempre un po’ il tempo che trovano. C’è bisogno di un’entità non accademica che consenta a giovani e meno giovani di incontrarsi in modo permanente. Un laboratorio di idee. Elaborare idee in un contenitore non accademico. Mi piacerebbe che si parlasse di fotografia fuori dai circoli fotografici, che si parlasse più di immagine e di rapporto con la realtà. È paradossale che in Italia non esista una vera scuola di fotografia. Si impedisce a chi ha dei valori da esprimere di esprimerli. Persone con un grande talento che si perdono per strada perché non riescono ad esprimersi. In altri paesi invece si è riuscito a creare situazioni artistiche che aiutano i giovani a crescere e a conoscere. In Italia manca un punto di riferimento per veicolare tematiche sui linguaggi, sull’immagine.
Cosa pensi del progetto No Panic?
Mi piace molto come idea, è l’espressione in piccolo di un’idea grande che potrebbe svilupparsi. Potrebbe diventare un’idea formativa permanente. Un idea come quella del No Panic, evoluta, perfezionata, ingrandita, potrebbe diventare un modello per andare oltre all’idea della fotografia come reportage o di stretto rapporto con la realtà. Secondo me la fotografia ha un rapporto con le idee più che con la realtà. Perché la fotografia è un pretesto.