Serie di interviste condotte nel contesto del SI Festival di Savignano, in collaborazione con la No PANIC Gallery di Chico De Luigi.
Tutte le interviste sulla rivista NO Panic –nopanicmag
Quando hai capito che volevi diventare fotografo?
Ho capito che volevo diventare fotografo negli anni Sessanta bevendo un bicchiere di vino bianco con un pittore che si chiama Lucio Fontana, al Jamaica di Milano. Ho capito che volevo fare il reporter, ma non l’ho fatto subito, ci ho messo un po’ di tempo, perché facevo il flaneur, vivevo con i miei amici e intanto ragionavo intorno al futuro.
Perché flaneur?
Bisogna contestualizzare questa domanda con il periodo, quindi negli anni Sessanta, quando l’Italia viveva un periodo molto strano, un periodo di miracolo economico ma anche di straordinaria povertà, perciò viveva una forte contraddizione di classe. Soprattutto a Milano, lacerata dalla guerra, ma nel pieno del boom economico del Pirellone, intorno al bar Jamaica e all’Accademia di Brera vivevano i flaneur, che aspettavano di decidere cosa fare della propria vita, attraverso la solidarietà di tante persone; il tempo lo si investiva in libri, giornali, letture, discussioni, passioni politiche e viaggi.
C’è un filo conduttore che ha guidato i tuoi primi lavori?
Inizialmente facevo cronaca per un quotidiano, mi divertivo molto perché la sera nel quartiere in cui vivevo finivo i miei rullini nelle foto scattate al bar dai miei amici. Perché la storia è fatta da tutti noi, non da chi diventa famoso, così io raccontavo la loro storia, la storia operaia, la storia della Cecoslovacchia,
Il tuo ruolo (di fotografo) coincide con il tuo essere?
Io non mi considero un fotografo. No mi sono mai considerato un fotografo perché ho lavorato per la carta stampata, per i giornali, all’interno del sistema della comunicazione. Mi definisco un giornalista fotografo, il termine francese è corretto. Ugo Mulas è fotografo, io sono un reporter che ha girato, ha scattato delle immagini in funzione di un reportage giornalistico, della cronoca o no. Raccontavo con le immagini, ma in realtà era “professione reporter”.
Che cosa c’è di autobiografico nel tuo lavoro?
La mia passione civile politica.
Ci sono delle cose che non puoi fare a meno di fotografare?
Io ho fotografato tutto quello che mi incuriosiva, che mi incuriosisce, che può essere anche la banalità all’interno della mia stanza.
Quali foto non avresti voluto scattare?
Non mi sono mai autocensurato perché sono sempre stato privo di ideologia, non ho mai inseguito il mito del fotografo. Il punto è che non ho mai realizzato delle fotografie per venderle, ma ho fatto delle fotografie per me stesso.
Qual è il tuo progetto nel cassetto?
Tanti sono i progetti… voglio tornare un paio di volte in Africa dove sono stato per lunghi periodi, poi ho una mia monografia da completare.
Qual è il ruolo del freelance nel panorama della fotografia?
La straordinarietà del fotogiornalismo italiano sono stati i free lance, una pattuglia di personaggi di vecchia e nuova generazione che aprivano una finestra sul mondo. Personalmente ho lavorato con giornali con i quali mi identificavo politicamente e culturalmente.
Qual è il compito del reporter?
Il compito del reporter è molto difficile, ovvero quello di cercare di entrare nella vita, nella quotidianità di un luogo e documentarlo, per fare ciò devi avere una grande onestà intellettuale e solo così puoi farlo.
Cosa succede (fisicamente e mentalmente) prima di un lavoro?
Se vuoi capire un quartiere hai bisogno di molti strumenti, hai bisogno di andare da architetti che ti spiegano, da sociologi, da assistenti sociali e da tutti coloro che ti possono spiegare una determinata realtà.